Seguendo le suggestioni di queste note e tematiche, l’artista presenta opere inedite e di frattura tra epoche e ideologie, offrendo una riflessione storica su luoghi, lavoro, dimensione sociale e politica, messa a confronto con il mondo contemporaneo.
Attraverso il suo sguardo lucido e ironico, Gatti esplora le trasformazioni radicali che hanno segnato il passaggio dal mondo industriale tradizionale alla fluidità dell’identità contemporanea. In questo scenario, i confini tra lavoro, consumo e vita privata si dissolvono, imponendo nuove forme di consapevolezza e creatività per resistere o adattarsi a un progresso apparentemente inarrestabile.
Il percorso espositivo si sviluppa come un viaggio tra i resti di un passato fatto di fabbriche e confini materiali, dove il dominio economico e politico appariva tangibile e sfidabile, e un presente in cui le logiche produttive e di consumo permeano ogni aspetto della quotidianità.
Al centro della riflessione di Gatti si colloca l’ossessione per una produttività incessante, contrapposta a un'”eroica improduttività”: uno spazio di sottrazione e assenza che diventa fertile terreno per desideri e passioni, liberi dalle logiche economiche.
In foto
Installation view, Vodka Cola, Matteo Gatti
fotografia di Cristina De Paola
AVM: La canzone Vodka Cola è un riferimento chiave per la mostra. Cosa significa per te questo brano e in che modo ha influenzato la tua ricerca e il percorso della mostra?
Vodka Cola degli Area è l’ultima canzone dell’album Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano! (1978). Il titolo stesso è una sintesi provocatoria e forzata delle contraddizioni ideologiche dell’epoca: la vodka, simbolo del blocco sovietico, e la cola, emblema del capitalismo occidentale, accostate per denunciare la crescente omologazione tra sistemi teoricamente contrapposti. La pubblicazione del disco avvenne in un periodo di trasformazioni politiche e sociali, segnato dalla fine delle grandi utopie rivoluzionarie e da un clima di tensione politica in Italia. Gli Area, con il loro approccio sperimentale, mettevano in discussione le sovrapposizioni tra capitalismo e socialismo, evidenziando come entrambi finissero per esercitare forme di dominio sulle persone. La loro musica era stata in grado di cogliere puntualmente l’anima di quegli anni, si definivano “International Popular Group” proprio per esternare l’idea di fusione tra arte e vita. Mi sembrava la colonna sonora di riferimento per questa esposizione. È anche un brano senza parole, solamente vocalizzi, si fa quindi carico di un linguaggio che va oltre la dimensione letterale, diventa quasi astratto.
AVM: Proprio questa canzone sembra risuonare nel disegno della ragazza protagonista dell’opera su carta “Maneggiano la pistola come se facessero l’amore” che oltre a essere la locandina della mostra è anche posta all’entrata del percorso espositivo. Nel disegno la figura è abbandonata sul letto nel gesto della lotta armata, imitando una pistola con le mani. Viene affiancata a “La brava fanciulla non si riconosce più”, un’opera in cui figurano la falce e il martello sfocati. Questo dittico rappresenta un incipit di narrazione ben preciso. Me ne potresti parlare?
MG: La mostra si apre con un dittico che mostra una fotografia del simbolo del PCI tratta da una tessera elettorale, con la falce il martello che, come hai notato, appaiono molto sfocati e in bianco nero. La sfocatura è voluta, da lontano qualcuno potrebbe riconoscerli come simboli, ad altri potrebbero sfuggire. A fianco un disegno di una mano femminile intenta a fare il gesto della pistola, che ricorda uno dei gesti diffusi in una parte dei militanti di quegli anni. Questa mano però è realizzata come un disegno su carta in cui c’è un colore molto tenue, monocromo e delicato. La figura sembra quasi uno spettro, un fantasma, che riposa adagiata su un cuscino con dei capelli scompigliati. Come se stesse dormendo o sognando.
L’idea del dittico riflette sulla percezione di questi codici portando le persone a guardare queste immagini e a rapportarsi come se fossero colte da una miopia, in cui la vista viene in qualche modo sabotata.
In foto
Installation view, Vodka Cola, Matteo Gatti
fotografia di Cristina De Paola
AVM: Come continua poi il percorso di Vodka Cola?
MG: Intanto tengo a sottolineare che la mostra è il frutto di un intenso e fertile dialogo con la direttrice Matilde Scaramellini, il cui apporto progettuale e curatoriale è stato fondamentale. Contrapposto al dittico d’entrata la mostra termina con un’immagine che rappresenta i miei due figli insieme alla mia compagna, dal titolo Foto di Famiglia. La fotografia è stata scattata nei pressi di un ex passaggio a livello a Pinerolo (TO), il punto nel quale sono stati arrestati i due capi storici delle Brigate Rosse nel ‘74. Queste due opere segnano l’inizio e la fine della mostra, indagando idealmente i margini del vivere civile: da una parte la scelta della lotta armata e della clandestinità, dall’altra la famiglia borghese. Tra questi due estremi abbiamo scelto di porre una serie di opere che riflettono sul tema del lavoro, riattualizzando – in chiave semiseria – la visione operaista tipica di quegli anni. Nel mondo digitale in fondo siamo tutti operai (non retribuiti) che contribuiscono in modo massiccio al profitto di grandi multinazionali. La provocazione risiede nel fatto che quantomeno gli operai del passato, alla fine del turno, uscivano dalla fabbrica.
La mostra si appropria dei simboli e dei codici di un periodo caratterizzato da un forte presa di coscienza collettiva, accostandoli a elementi onirici e grotteschi come operai formica o crisalidi.
AVM: Questo è il primo lavoro di riflessione su temi politici. Nelle tue opere e mostre precedenti c’è stata una grande riflessione sul sociale, anche nella tua esperienza nel cinema sperimentale. Potresti parlarmi del percorso della tua poetica e quali sono stati i passaggi fino a oggi?
MG: All’inizio del mio percorso mi sono interessato soprattutto ai linguaggi multimediali, ho avuto una parentesi molto importante e formativa nel cinema di ricerca, con la produzione di film documentari e di carattere sperimentale insieme a Demetrio Giacomelli e Matteo Signorelli.
Successivamente mi sono dedicato maggiormente all’arte visiva, producendo sculture e installazioni che oscillavano tra una dimensione seduttiva e una repellente, pretesto per affrontare il tema di alcune ossessioni sociali come il rapporto tra uomo e tecnologia.
Durante la pandemia ho approfondito il disegno, andando via via a definire un tratto personale, spesso piuttosto particolareggiato.
Negli ultimi anni mi sono avvicinato alla fotografia a pellicola, riconoscendone una certa continuità con il disegno. Sviluppo e stampo la maggior parte delle fotografie in autonomia, perché ciò mi permette di controllare il flusso di lavoro in modo integrale.
In foto
Studio dell'artista
AVM: All’interno della mostra la tua ricerca fotografica diventa quasi un metodo di appunti visivo, mentre il disegno è puntuale e meticoloso. Insieme configurano universi complementari. Quali sono i loro indici visivi?
MG: Nella mostra la fotografia invade gli spazi del disegno e viceversa. Sicuramente utilizzo la fotografia come un sistema di raccolta di appunti visivi, e al tempo stesso lavoro al disegno con un atteggiamento fotografico, spesso partendo proprio da fotografie trovate o scattate da me, in cui inserisco elementi di immaginazione, metafisici e, a tratti, surreali.
La fotografia mi ha dato l’opportunità di uscire dallo studio e confrontarmi con il paesaggio del torinese, caratterizzato da una cintura formata da zone industriali che separano l’ambiente urbano da quello agricolo. Ho iniziato a fotografare queste zone industriali – nelle quali risuona l’eco del fantasma dell’indotto Fiat – la domenica mattina, il giorno di riposo: un momento nel quale si avverte una straniante cristallizzazione. Le architetture industriali mi interessano molto perché il loro aspetto è tale solo in funzione di ciò che devono contenere: lavoratori e macchine. Questo determina un senso di spaesamento perché in effetti, visitando queste aree ci si rende conto che potrebbero trovarsi in qualunque punto del mondo. Come se le forme legate alla produttività tendessero ad annullare qualunque tendenza alla singolarità.
AVM: La mostra presenta un totale ribaltamento della percezione della nostra storia sociale e politica presentato in chiave ironica, attraverso la tua poetica. Potresti dirmi come bilanci la narrazione storica, critica e sociale con la vena ironica?
MG: L’aspetto storico si concentra soprattutto sull’esperienza del movimento operaio e studentesco a partire dagli anni Sessanta fino a circa la metà degli anni Ottanta. Questa esperienza mi interessa innanzitutto per motivi familiari, dato che sono cresciuto in una famiglia i cui componenti sono stati politicamente attivi in quegli anni. In secondo luogo rappresenta il periodo storico più vicino a noi in cui una grande massa di persone si è convinta di poter radicalmente cambiare la propria condizione di vita attraverso un processo di collettivizzazione della lotta. Cambiamento radicale della propria condizione e dimensione collettiva mi sembrano i due elementi più estranei alla società nella quale viviamo. Una delle domande che questa mostra intende porre è dunque: dopo quarant’anni cosa rimane di quella esperienza?
AVM: In un’epoca iperconnessa e veloce fermarsi a considerare una parte importante della nostra narrazione storica, sociale e politica, e raccontarli attraverso una mostra è un modo per dare gli strumenti per una ricerca di resistenza personale e identitaria ai suoi visitatori. Con una serie di suggestioni patinate, lucide, simili a quelle dei sogni, insieme all’ironia amara, Gatti ricava il tempo e lo spazio ne l’inazione, ovvero la mancata azione e non necessariamente la sua negazione. Un’esplorazione libera e priva di preconcetti produttivi che diventa un atto di resistenza, seppur inconsapevole. Invito quindi i lettori a percorrere questa esperienza in mostra fino al 24 marzo.