Questa è la chiave di lettura pratica che vi propongo per questa Biennale, per provare ad entrare in relazione con le scelte operate dal curatore Adriano Pedrosa. Con questi propositi, la sfida è proprio quella di ridefinire o riposizionare il concetto stesso di alieno e familiare. Per riuscirci vengono impiegate scultura, arti visive, musica, performance e letteratura provenienti da artisti di tutto il mondo.
In generale tanti emerging dead artists, cioè artisti che incontrano la visibilità della Biennale soltanto da postumi. Sono prevalentemente indigeni di ogni continente, spesso autodidatti, nati e vissuti nelle loro terre, la cui produzione è stata spesso precedentemente “raccolta” dal loro contesto e inserita nelle grandi collezioni private o istituzionali euroamericane (ad esempio la collezione Cartier) per essere poi posti sul piedistallo della storicizzazione artistica. Per quanto sia una fortuna poter vedere così tanta ricerca, spesso si perde il tempo, lo spazio, e soprattutto il contatto umano con l’artista che ciascuna di queste opere meriterebbe per venire compresa oltre la sua semplice provenienza geografica e culturale. Al contrario, specialmente ai Giardini, l’horror vacui regna sovrano e installa le opere in maniera classica, come ci si aspetterebbe da una galleria o una fiera d’arte. Questo, specialmente nel caso delle opere di artisti autodidatti, non dona luce all’unicità del loro tratto che, imbrigliato tra vetri e cornici, sparisce in un mare di oggetti.
Gli artisti viventi, invece, sono spesso giovani che provengono da ogni angolo del mondo ma che, nella maggior parte dei casi, studiano o lavorano nelle grandi capitali del mercato dell’arte contemporanea. Questi lavori dimostrano una produzione affinata, supportata, meticolosa e talvolta anche costosa (porte di casa trasportate da un continente all’altro, mosaici, enormi ceramiche, etc.). Questo divario rispetto alla produzione degli artisti indigeni esibiti postumi fa riflettere sull’evoluzione del mercato globale e ciò che esso oggi determina: la possibilità di studiare all’estero, di entrare nel mercato del grande collezionismo internazionale, l’esistenza di una “carriera” d’artista, la possibilità di restare in contatto anche commerciale con i propri paesi d’origine, ma anche una burocrazia internazionale dominata sempre di più dalle disponibilità economiche personali, e tanti altri fattori che fanno pensare che la distanza tra questi due gruppi di artisti sia ben più ampia della longitudine di una sala espositiva.
Il grande assente però è lo strumento che più di tutti ha determinato un cambio radicale nella vita di chi è alieno o di chi cerca un altrove: internet. L’assenza di opere di net art o comunque che considerino i mezzi di comunicazione (che spesso vuol dire sopravvivenza) usati nella quotidianità si sente, lasciando un vuoto che si spera verrà abitato da più opere e artisti in futuro.
Per accessibilità, le opere sono introdotte secondo l’ordine in cui le si incontra nelle stanze.
Arsenale
In termini generali l’Arsenale, forse anche grazie alla sua architettura più lineare e meno confusionaria rispetto ai Giardini, si presta meglio per comprendere il senso di questa Biennale.
Quello che si incontra in alcune opere è la testimonianza di numerosi tentativi di liberarsi dalle direzionalità abituali, quali ad esempio la direzione che porta gli artisti delle “periferie” ad affermarsi necessariamente nei “centri” urbani, o la direzione che vede gli artisti passare necessariamente dall’educazione e dai circuiti accademici per poter esporre nei “luoghi sacri” della cultura, o anche le direzioni più canoniche della sessualità, che vedono alcuni mezzi e produzioni come prettamente “femminili”, e così via.
È con questa chiave di lettura che alcune opere dell’Arsenale appaiono ancor più interessanti e meritevoli di riflessione.
In foto
Mataaho Collective, Takapau, 2022.
Si potrebbero spendere mille parole oppure ammirare l’intimità e i riflessi dell’opera all’ingresso: una stupefacente trama di cinghie di sicurezza riflettenti, composta dal collettivo aotearoa (alt. neozelandese) Mataaho, che trae ispirazione dal retroterra familiare operaio delle artiste.
I fiumi di stelle dipinti su corteccia da Naminapu Maymuru-White è toccante, commovente, di grande impatto visivo e riesce a generare uno stupore che spesso, nell’offerta artistica a cui siamo abituati, riesce soltanto a opere realizzate con materiali molto più costosi e tecnologici rispetto a quelli invece utilizzati dall’artista. I fiumi di stelle raccontano la Storia da direzioni diverse, attraversando con un fiume che si unisce al cielo i paesaggi del Dreamtime, la mistica “alba dei tempi” aborigena. Qui, ogni stella rappresenta le anime passate, presenti e future. I materiali utilizzati sono materiali sacri come l’ocra bianca e un pennello tradizionale fatto con capelli umani e sottolineano un’esperienza multidimensionale della Terra e del Paese in cui l’artista vive: una comprensione assolutamente necessaria di fronte al fallimento funzionale delle rigidità ideologiche e visuali (ad esempio la proiezione verticale nelle mappe ufficiali ) su cui sono state costruite le nazioni in cui tutti viviamo.
È impossibile guardare questi fiumi da un’unica prospettiva: all’inizio sembrano visti dall’alto verso il basso, ma dopo poco l’osservazione si sposta, e sembrano raffigurati in prima persona, per poi capire che fondamentalmente il cielo e l’acqua non fanno altro che unirsi. Qui il mondo ancestrale è quello vissuto dall’artista indigena australiana, che attraversa le generazioni, il tempo e lo spazio, pulsa di energia e conferisce strati di forma e significato al concetto ciclico di vita e morte.
Il lavoro di Frieda Toranzo Jaeger, nella stessa sala, è quasi una grande pala d’altare o da palcoscenico, dedicata alla libertà e al trionfo di un’esistenza queer che si alimenta sia della provenienza dal Sud Globale sia della ricerca, nella terra di adozione, di spazi di assenza di controllo, di libertà di espressione, di sperimentazione e di liberazione dei ruoli di genere diretti dall’autorità. Questo a sua volta si mescola a fascinazioni per gli oggetti della società stessa, come le auto elettriche, che l’artista percepisce come entità femminili. Per finire, la firma – bella grossa, che è un po’ tag sui treni un po’ sberleffo da parte dell’artista queer verso le firme testosteroniche dei “pittoroni”, storici e non-, conosciuti o ignoti.
Bonus track: le scritte e i disegni nascosti dietro l’opera, come in ogni pala, dipinto o affresco che si rispetti.
Le grandi tecniche e soprattutto i materiali tradizionalmente associati al canone delle belle arti europee (mosaici, olio, ceramica, etc.) vengono utilizzati per riportare nella Storia etnie, famiglie, gruppi di persone che ne sono state escluse, mettendo in discussione il concetto di Storia stessa, o meglio la sua linearità così come è stata programmata a tavolino; una linearità del tempo innaturale tanto quanto le linee dei confini africani create in Europa nell’Ottocento. Vengono a mente le ceramiche di Julia Isidrez, tramandate di madre guaranì in figlia, o ancor più i lavori di Marlene Gilson, che esplorano con la pittura una cancellatura, un vuoto storico, cioè il primo incontro tra aborigeni e inglesi, dipinto dalla prospettiva però dei locali e non dalla narrativa a posteriori dei colonizzatori. Anche qui, un ri-direzionamento dello sguardo.
In foto
Naminapu Maymuru-White, Mayaŋura malaŋu miḻŋ’miḻŋ’ (Stars reflected in the river), 2023.
Juana Marta Rodas, Untitled, 1993 ca.
Meritano una riflessione i mosaici di Omar Mismar, che utilizzano sia il mezzo del mosaico che la struttura stessa dell’opera per raccontare cancellature ed estromissioni di diverso tipo. Alcuni mosaici raccontano la storia mai cantata di alcuni eroici guardiani di un museo in Siria durante la guerra contro l’Isis. Il mosaico del toro e del leone inverte le teste dei due animali sovvertendo il tradizionale equilibrio tra predatore e preda, un ribaltamento di direzione che assume significati anche linguistici, dato che thawr, toro in arabo, è cognato di thawra, rivoluzione. Ed è infatti nel mosaico, con i due amanti non identificati che si baciano, che si esprime tutto il potere della piccola tessera millenaria che ha sempre incantato gli sguardi, da Pompei fino agli schermi dei nostri computer. Perché se è vero che il rapporto queer tra due uomini è completamente censurato in Libano, è vero ancor di più che il momento dell’avvicinamento fisico e passionale tra i due volti è scombussolato da un disordine delle tessere, un glitch dei pixel che fa convivere al tempo stesso la censura online, lo sconvolgimento dell’avvicinamento amoroso, e anche la volontà di non vedere determinate cose.
In foto
Omar Mismar, Two Unidentified Lovers in a Mirror, 2023.
Omar Mismar, Hunting scene, 2019-20.
Fa pensare, quando non fa muovere con il ritmo delle sue performance, l’installazione sonora e tessile di Antonio Jose Guzman e Iva Jankovic. Fa pensare al grande paradosso dell’ “India”, come “le indie”, l’India e gli Indios siano stati messi concettualmente nello stesso calderone dagli studiosi, dai geografi ed infine dai colonizzatori europei, mescolando, spostando, trapiantando genti, merci e specie vegetali dall’India all’Asia fino al Pacifico, il Sudamerica e via di nuovo a toccare l’Africa.
L’indaco ancestrale usato per i tessili, che riproducono sezioni congiunte di DNA, è stato prodotto secondo un metodo antichissimo e si stende come tentacolo diventando ora un pattern, ora un beat musicale, seguendo una direzione latitudinale che segue le rotte commerciali e umane della Storia per provare a romperle o almeno ad intrecciarle. Nota degli artisti: si può passare attraverso l’installazione, lasciatevi attirare quindi al suo interno, passando tra i tessuti. E poi, guardate verso l’alto: vi apparirà come fosse un’astronave, infatti sia la struttura che i performer sono dei viaggiatori, come lo siamo tutti noi.
Il nucleo storico, allestito esattamente come la sala principale del MASP di San Paolo (di cui Pedrosa è direttore), aiuta a ricordare che non esiste una sola Italia ma due, anzi ormai tre. La prima Italia è quella peninsulare, la cui Storia viene insegnata nelle scuole del Paese, la seconda Italia è la talea socio-culturale che si è staccata dal Paese durante l’emigrazione infinita che lo caratterizza dalla fine dell’Ottocento (cioè da quando è stato unificato). Questa talea vive da sempre in Sud America e ha dato vita a storie, culture e creazioni che hanno spesso perso contatto con la penisola. La terza Italia, come si vede più distintamente ai Giardini, è quella che si crea ogni giorno con gli immigrati di prima generazione e le loro discendenze. Il senso del nucleo storico di pittura e scultura è, comunque, far vedere non tanto gli stranieri in Italia ma gli Italiani in terra straniera, completamente staccati e dimenticati dalla storiografia artistica nazionale. Questi artisti, nella gran parte dei casi, fanno già parte della collezione del MASP.
Un’altra direzionalità che viene sfidata è quella secondo cui l’artista, per consolidare un successo commerciale e di critica, debba concentrarsi su un mezzo espressivo, se non addirittura essere monodisciplinare: da qui l’acquarello molto bello di Simone Forti, artista premiata l’anno scorso con il Leone d’oro alla carriera per il suo lavoro pionieristico nella danza e nella performance.
Merita tempo e respiro anche l’arazzo di Suzanne Wenger.
Parlare quindi di stranieri è parlare di movimenti e parlare di movimenti è parlare di direzioni libere, non lineari, dettate dalla necessità, tese ad adattarsi o ad insediarsi in un ambiente non proprio, e questo tocca ogni aspetto della vita di questi artisti: dalla nazionalità alla geografia, al mestiere, alla sessualità, alle discipline artistiche, il tempo, come nei lavori di Maimuru-White, o anche le direzioni psicologiche, dal subconscio al conscio e viceversa, come nei lavori di Anna Zemánková.
Parlando di direzioni, uno dei lavori più affascinanti e toccanti è quello di Isaac Chong Wai, una performance filmata e installata su più video verticali. Come reagisce un corpo collettivo a un corpo individuale che cade, magari per effetto di violenza? Quali sono le reazioni della società di fronte a un momento profondamente turbativo come una caduta (anche qua, quindi, una direzione)? L’opera nasce proprio dall’esperienza dell’artista. Negli Stati Uniti infatti, nonostante se ne parli molto poco, la violenza fisica e verbale nei confronti degli asiatici è quotidiana e diffusa. Quando poi l’asiatico è anche queer, la sensazione di pericolo e di solitudine può raggiungere livelli drammatici.
Infine, Machine Boys di Karima Ashadu, che si immerge in maniera surreale e allo stesso tempo iperreale nell’universo degli okada, i moto-tassisti illegali di Lagos. Perseguitati da un governo sempre più iper-securitario, gli okada continuano ad operare e a ritrovarsi nelle zone grigie della città, esorcizzando attraverso lo sfoggio rituale di sicurezza e mascolinità un contesto lavorativo sempre più precario e instabile.
Parlare quindi di stranieri è parlare di movimenti e parlare di movimenti è parlare di direzioni libere, non lineari, dettate dalla necessità, tese ad adattarsi o ad insediarsi in un ambiente non proprio, e questo tocca ogni aspetto della vita di questi artisti.
Giardini
La direzionalità imposta viene sfidata anche nel nucleo storico presente ai Giardini, dove le opere di Rafa Al-Nasiri abbracciano linearità più curve e sinuose rispetto alle classiche forme ortogonali del modernismo e dell’astrattismo europeo.
Anche qui, come nel nucleo storico dell’Arsenale, la fanno da padroni lavori già appartenenti alla collezione del MASP o già molto presenti nella offerta culturale della città brasiliana, come la giapponese Tomie Ohtake.
I lavori tessili esposti sono spesso bellissimi.
Pablo Delano porta in vita il museo di cui Puerto Rico avrebbe davvero bisogno, cioè il Museum of the Old Colony (anche qui, la direzione: non è il museo che fa l’artista ma l’artista che fa il museo). Per cui se ad un primo impatto l’ambiente può risultare didattico o addirittura straniante, la percezione cambia non appena si riesce a cogliere l’operazione nella sua interezza. Peccato che le scrivanie non siano in realtà accessibili e possano soltanto essere fotografate come fossero quaderni degli appunti tridimensionali. Alcune foto meriterebbero maggiore autonomia rispetto all’enormità di materiale esposto, ma il senso di una visita breve alla Biennale secondo me è anche quello di non dover per forza sentire di “aver visto tutto”, ma prendersi la libertà di fermarsi sulle cose che incuriosiscono andandone a fondo.
Riguardo le direzionalità, un’altra direzione che viene invertita è quella che porta gli artisti dalle Accademie alle gallerie, fino alle Biennali. In questo caso ampio spazio viene dato ad artisti autodidatti, a volte chiamati tristemente outsider artists.
Quello che invece non sembra essere superato come traiettoria è la traiettoria che porta gli artisti (viventi) a dover per forza vivere e lavorare in grandi città globali per poter essere visitati dal sistema dell’arte. Se, infatti, un gran numero di artisti storici (cioè defunti) hanno lavorato e vissuto nei loro villaggi o paesi natii, gli artisti più giovani in mostra, provengano essi dal “global south” o anche dall’Italia, comunque vivono e lavorano nelle metropoli.
Riguardo le didascalie e le scelte di video, essenziali per la visita, talvolta risulta difficile capire per chi davvero sia questa Biennale, per quale tipo di pubblico: per dire, è un pubblico che è già familiare con le parole rizoma e altri vocaboli tipici dell’Accademia o invece è un pubblico davvero trasversale per provenienza culturale, pronto ad accogliere nel suo bagaglio dell’immaginario delle nuove iconografie grazie ad un’esperienza innanzitutto sensoriale?
Rispetto all’Arsenale, ai Giardini troverete un bilanciamento diverso tra opere che raccontano, documentano, descrivono fatti, condizioni o fenomeni, ed opere che esprimono sensazioni ed esperienze.
Tra quest’ultime, l’installazione e il lavoro video di Gabrielle Goliath, in cui persone parlano delle proprie esperienze di violenza subite per motivi razziali, sessuali, nazionalistici, gerarchici. I loro racconti sono però rimossi, restano soltanto i momenti in cui l3 intervistat3 prendono fiato o cercano un pensiero, accompagnat3 contemporaneamente da un canto lamentoso dell’artista.
Rispetto all’Arsenale, ai Giardini troverete un bilanciamento diverso tra opere che raccontano, documentano, descrivono fatti, condizioni o fenomeni, ed opere che esprimono sensazioni ed esperienze.
Padiglioni Nazionali
Egitto (Giardini): un’opera “lirica” contemporanea video meravigliosa di Wael Shawky, che merita di essere goduta dall’inizio alla fine.
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Wael Shawky, Drama 1882, 2024.
Francia (Giardini): prende forma il pensiero arcipelagico e creolo di Edouard Glissant attraverso le opere e i video di Julien Creuzet, artista della Martinica. In particolare ho trovato molto toccanti le sculture che sembrano ingabbiate nelle stesse gabbie che venivano poste sulla testa degli schiavi per impedire loro di fuggire nella foresta, restandoci impigliati. Struggente e liberatorio allo stesso tempo, speranzoso.
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Julien Creuzet, Padiglione Francia, 2024.
Gran Bretagna (Giardini): tutta l’installazione video, audio e scultorea di John Akomfrah meriterebbe mezza giornata. I video sono disposti come in una pala d’altare, oppure in posizioni totalmente inusuali ma proprio per questo ancora più coinvolgenti.
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John Akomfrah, Padiglione Gran Bretagna, 2024.
Serbia (Giardini): qui lo Stato non esiste più, dominano soltanto i marchi commerciali, i cittadini sono solo consumatori, e un ambiente dopo l’altro il visitatore entra (o torna) in contatto con una dinamica tipica di tanti Paesi in via di “sviluppo” in cui interi pezzi di servizio pubblico sono totalmente finanziati e colonizzati da brand stranieri, che non si limitano a fornire prodotti ma si preoccupano di caricarli surrettiziamente di valori politici e geopolitici.
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Aleksandaar Denić, Padiglione Serbia, 2024.
Polonia (Giardini): l’opera che più mi è rimasta impressa di questo padiglione è un karaoke molto particolare, su cui preferisco però non rivelare troppo.
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Open Group, Padiglione Polonia, 2024.
Off-biennale
Padiglione Hong Kong: Courtyard of Attachment di Trevor Yeung, giusto davanti all’ingresso dell’Arsenale, è una metafora estremamente poetica sia dell’impossibilità naturale di adattarsi e concepire i concetti a cui spesso la società aspira (ordine, disciplina, controllo, sicurezza) sia dell’assurdità della burocrazia che rende ogni minima azione estremamente difficile. L’artista concretizza ed esprime queste condizioni attraverso il linguaggio degli acquari, sia quelli dei negozi che quelli tipici dei ristoranti cinesi, che in questo caso sono tutti disabitati ma tenuti in attività da meccanismi complessi e costosi.
LAS Foundation: Josefa Ntjam, Swell of Spaecies, è uno dei più grandi esercizi di world-building da parte dell’artista e performer franco-camerunense che da sempre invita lo spettatore a entrare in dimensioni idro-oniriche primordiali e che qui riesce a creare un’esperienza davvero totale grazie anche alla colonna sonora di Fatima Al Qadiri. Un consiglio: appoggiate l’orecchio alle sculture presenti nella stanza per cogliere davvero la potenza di queste sound sculptures realizzate assieme al sound artist marsigliese Hugo Mir-Valette.
Costa d’Avorio (Squero vecchio di San Trovaso): The Blue Note. Quello della Costa d’Avorio è un esercizio di intimità e creazione di uno spazio che guardi sia al passato che al presente gettando le basi per creare una comunità intorno all’arte che viene presentata. Così, sculture di grandi dimensioni, video e opere grafiche si accompagnano a un vero e proprio blues bar con una sua programmazione. Curato da Simon Njami.
Nebula, Complesso dell’Ospedaletto Vecchio: nuove produzioni video da parte di In Between Art Films (Beatrice Bulgari). Dedicate del tempo per guardare tutte le opere dall’inizio alla fine perchè quello che è stato creato all’interno dell’ex-ospedale è un viaggio audiovisivo potentissimo, finemente allestito in spazi appositamente adattati, con un percorso di visita alienante e sorprendente allo stesso tempo. I miei preferiti, Brown Bodies in an open landscape are often migrating di Basir Mahmood (già il titolo meriterebbe un programma a sé), When rain clouds gather di Christian Nyampeta, con dei dialoghi veramente pregevoli, e Until we became fire and fire us di Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme, con un sonoro potente, avvolgente e memorabile.
Fondazione Prada, Ca’ Corner della Regina, Christoph Büchel Monte di Pietà.
Una mostra fondamentale, che prosegue nella linea già tracciata dall’ultima mostra ospitata in Osservatorio a Milano. L’installazione dell’artista svizzero si sviluppa su tre piani ed è un’enorme allegoria del sistema dell’arte, della moda, della religione e della catena di creazione del valore che è basata da secoli su un singolo elemento: la “fede” e le credenziali che da essa derivano.
Perdetevi al suo interno e giocate a individuare i “veri” capolavori e le opere d’arte in mezzo all’enormità di oggetti presenti. La sensazione è liberatoria ed iconoclasta, ma non tramite l’annullamento dell’immagine bensì tramite il suo annegamento in un oceano di materiali e feticci.
Non saprei se consigliare di vederla prima di visitare la Biennale o subito dopo, ma le mostre che raccontano in maniera attiva ed esperienziale come funzionano i sistemi sono sempre più fondamentali, e questa merita davvero la vostra attenzione. Imperdibile.