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Il Corpo di Napoli CONVERSAZIONE TRA PIETRO GAGLIANÒ E SIMONA DA POZZO

In occasione della tappa partenopea della residenza artistica itinerante Grand Tour en Italie, a cura di
Susanna Ravelli e Michela Eremita, di cui Simona Da Pozzo è una delle artiste in residenza, pubblichiamo la conversazione sul Corpo di Napoli Corpo di Napoli tra l’artista e il critico d’arte Pietro Gaglianò.

Grand Tour en Italie, programma itinerante di residenza d’artista, che si propone di promuovere l’arte italiana attraverso la costruzione di relazioni favorevoli all’incontro tra artisti e curatori, operatori culturali e centri d’arte, approda a Napoli, in collaborazione con SuperOtium. Le protagoniste della residenza a Napoli, tutta al femminile, sono: Simona Da Pozzo, Tiziana Pers, Isabella Pers, Stefaniza Mazzola. Al gruppo si aggiungono le artiste in visita: Maura Banfo e Concetta Modica, che ritornano in viaggio, dopo l’esperienza palermitana.

In foto

Simona Da Pozzo, Jus Solis Action – Atlas dei Corpi. Mirror and action curated by Marco Izzolino, Autumn equinox 2019

Pietro Gaglianò: I monumenti storici nello spazio delle città contemporanee vivono un destino ambiguo.
A volte sono vittime di una consunzione dovuta a troppi sguardi depositati su di loro, a troppe fotografe di pessima qualità, a una celebrità che ha svuotato la loro forma lasciando solo la superfcie. Altri monumenti, quelli più negletti, meno celebri, invece continuano una vita nascosta silente. E’ il caso del Corpo di Napoli e anche dell’efgie della Mosa a Rotterdam, entrambi perfettamente immersi nel proprio mondo ma anche estranei, remoti. La mia domanda, al cospetto di questi monumenti, è sempre la stessa. Che lingua parlano? In che idioma? Per essere ascoltati da chi? E chi è in grado di ascoltarli?

Simona Da Pozzo: Quel che mi ha fatto avvicinare al Corpo di Napoli è l’impressione che la sua voce non sia monolitica. Questo Corpo di Napoli sembra essere plurale, multidimensionale, multispecie, multigenere, multicorpo. Oppure: è per questo suo modo di apparirmi che è nata la nostra relazione amorosa aperta all’imprevisto. Il dialogo che il suo corpo-pre-restauro ha instaurato con Napoli, ha portato gli abitanti ad onorarlo come Partenope: donna-pesce, donna-uccello, corpo dalle cui spoglie è nata la città, Corpo di Napoli appunto. Poi è stato identificato nel XVII sec. come Fiume Nilo e restaurato/implementato di conseguenza in stile “uomo bianco barbuto”. Per questo mi rivolgo al Corpo di Napoli al plurale, parlo di Loro, ascolto entrambe le visioni: sia quella storica conservativa che quella immaginifico proiettiva dei racconti brulicanti tra le strade. E fn qui, ad ascoltare sono io e a parlare sono altri umani. Come di umana forma sono il Cuorpo e Napule e il Sebeto che, nella raccolta che ho trovato all’archivio de La Società Napoletana di Storia Patria, dialogano sulla costituzione in via di redazione all’epoca, nei primi episodi in Napoletano e poi nell’ ”italiano studiato in toscana”. Ma la pluralità del Corpo di Napoli sta nel loro potenziale di farsi portatori di visioni e narrazioni alternative che non trovano piedistalli. La voce che sento/ voglio sentire traboccare dal monumento va oltre a questi corpi- allegorie: emergono corpi fuviali ed inondazioni prolifche, animali non umani, umani non adulti, adulti con protesi, vegetali tra le pieghe della pietra. La loro voce non articola una lingua ma incarna un panorama sonoro che invita a decentrare l’umanità dal piedistallo che si è creata.
La connessione del Nilo con il Maas, il fume che attraversa Rotterdam, è ciò che mi ha permesso di
attivare una cassa di risonanza per la voce del Corpo fuviale: suoni dell’acqua, uccelli, anfbi, insetti. Mammiferi pochi.

In foto

Simona Da Pozzo, Sunrise Gods’call. Installation view at Palazzo Fondi, Naples – two channel installation on 70’ monitors, 52’09” loop, color, 4 channel audio, work realized thanks to nctm e l’arte. Ph. Ilaria Toralbo

PG: La dimensione ontologica in cui abita il tuo monumento (possiamo legittimamente definirlo “tuo”, sia perché ogni monumento pubblico appartiene a chiunque lo osservi sia per via del dialogo serrato, esclusivo e intimo che hai intrecciato con lui) è quindi una dimensione plurale e anche trasversale, rispetto ai domini della vita biologica, a quelli del genere e anche, fortemente, a quelli della spiritualità, o religiosità, o forse solo del rapporto che le persone coltivano con il non visibile. Questa soggettività polimorfa male si adatta alla cultura contemporanea, sempre più incline alla definitezza delle identità (talvolta anche in modo paradossale rispetto alle intenzioni di emancipazione), mentre trovo che risponda a una saggezza più antica, attenta al magico senza per questo cedere all’irrazionale, inclusiva in senso letterale senza essere irenista e, soprattutto, aliena alla frontalità di certe costruzioni intellettuali (come oriente-occidente, maschio-femmina, etc….). Il Corpo di Napoli è trasversale anche al tempo, come tu metti bene in evidenza, e allo spazio geografico (e questo lo capiamo in un modo ancora più forte proprio grazie al tuo lavoro, abituati come siamo a percepire immagini e identità come elementi radicati, inamovibili). La domanda che emerge riguarda allora la possibilità di questo corpo plurimo di essere un segno contemporaneo. In che modo, e soprattutto perché, un’artista si rivolge a un marmo antico, arcaico e stratificato, rivestito di decine di interpretazioni, sguardi, fraintendimenti?

SDP: La questione del tempo è cruciale in questa ricerca. Un tempo lungo, lento, né lineare né irreversibile: ogni attimo è contemporaneo all’altro. Un tempo quasi geografico. Come Napoli. La stratificazione non solo come cumulazione successiva di livelli ma come coesistenza nel presente di tutti i possibili “ora”. Coesistono quindi, sullo stesso livello, il segno antico e il segno/azione che quotidianamente aleggia intorno al marmo. Tra questi segni, il mio lavorìo segue i paradigmi del digitale: quello del meme, dell’hacking, del creare connessioni ipertestuali, “ipericoniche”, potenzialmente infinite.
Una pratica connettiva orientata ad osservare una economia dello sguardo, della materia; una pratica che tenta di distanziarsi dal caput/testa del capitale, quella che conta i capi dei bovini e li marchia a fuoco. E qui torna quel che chiami magico, che ha in efetti a che fare con l’oltreumano: mi interessa rendere visibile quanto il nostro concetto di umano, e quindi di non-umano, è un limite cognitivo che rende la nostra specie ingiustificatamente violenta. Forse per riuscire ad immaginare un futuro, abbiamo bisogno di recuperare una saggezza più antica che ci insegni a rispettare le entità altre: corpi dei fumi, l’humus della terra, il silenzio degli oceani, la rete delle radici, non ché le altre persone non umane.

In foto

Simona Da Pozzo, Notes about a polymerous afair with the Bodies of Naples. Video and printed videography, video 7’ 1920 x 1080, color, stereo + headphones + grey painting + yellow cable + videography printed on 120 gr paper, 21 x 150 cm

PG: A caratterizzare il dibattito dell’ultimo mezzo secolo c’è la questione su come la critica estetica possa dialogare con la critica sociale, sulla declinazione politica dell’arte, sul rapporto tra segni dell’arte e strategie dell’attivismo. Il tuo lavoro, per il modo in cui si immerge nella vita delle persone, nei loro spazi, per le questioni che mette sul tavolo (il concetto stesso di monumento non può essere trattato se non politicamente), per gli stessi termini e riferimenti che vi ricorrono, si connota per un atteggiamento che potremmo definire impegnato, se questo termine non fosse ormai logoro. Come si colloca il lavoro sul Corpo in questa prospettiva? E che tipo di preoccupazione hai rispetto al modo in cui un pubblico non interno possa leggerlo? Come studioso e come spettatore sento il bisogno di vedere il Corpo, finalmente restituito, grazie alla tua attenzione, alla sua complessità tridimensionale e trasversale, immergersi di nuovo nell’ambiente non protetto dal quale proviene. Quali sono quindi gli spazi per l’arte? E per il suo incontro con uno sguardo non informato?

SDP: Mi interessa la dinamica di fondo per cui la dimensione estetica e quella “mistica”; la scientifica e quella politica, condividono un procedere che genera, o riproduce, visioni del mondo. In questo senso, questi sono per me piani inestricabili. Nei miei lavori, tento di preservare questa moltitudine di piani mentre cerco di dialogare con un pubblico eterogeneo, per interessi, provenienza ed orizzonte. Il “mondo dell’arte” è quindi solo uno dei miei referenti. Mi rivolgo innanzi a tutto ai passanti, alle persone che quel giorno rischiano di inciampare nel mio dispositivo. Alcuni di questi avranno dimestichezza con i linguaggi dell’arte, altri incarneranno i linguaggi del mio “opponente politico”, altri si destreggeranno tra livelli della realtà che non posso immaginare. E’ per questo che la mia ricerca, e in particolare quella sul Corpo di Napoli, si manifestano con molteplici facce, o porte d’accesso, di un unico processo, organico ed adattivo. Il contesto di fruizione, essendo quello dello spazio pubblico, è fondamentale sia in una prospettiva estetica che politica: diventa parte integrante dell’opera o dei segni necessari a leggerla. Lo
spazio pubblico, inteso come luogo accessibile da chiunque senza restrizioni di tempo, è la dimensione e l’oggetto onnipresente della mia ricerca, che qui a Napoli non ha potuto far altro che riassettarsi su modalità e strutture specifche che, a mio avviso, sono di interesse non localistico: credo che il modo di agire lo spazio pubblico in questa città possa essere un modello, o forse un grimaldello, per decolonizzare altri luoghi. Ora con la ricerca sul Corpo di Napoli mi trovo ad un punto per me particolarmente rilevante: maturata una conoscenza specifca a questo monumento, posso iniziare a coinvolgere persone, comunità ed istituzioni in uno scambio di prospettive orizzontale, tentano di evadere gerarchie (intellettuali, politiche, economiche). Chi e come coinvolgere queste persone, comunità e istituzioni genera diversi tipi di sintonie e contrasti che conducono a compromessi. E qui la cosa si fa interessante se si legge il compromesso come risultato di un dialogo e come segno dell’operare nel mondo. Mi preparo ai compromessi facili da amare, perché visionari, e a quelli detestabili perché segnano sconfitte nel rapporto con chi esercita forme di potere. Comunque, anche quelli detestabili, o semplicemente infelici, sono segni interessanti perché rendono visibili i meccanismi di potere mascherati da cultura. I miei dispositivi tentano di essere accoglienti e fastidiosi allo stesso tempo, per dialogare con la curiosità del fruitore, nonostante le nostre similitudini e differenze d’orizzonte. Quindi, anche se il processo vive del desiderio di farsi antenna di un certo tipo di attitudine al mondo, nella realtà dei fatti mi rallegro già di riuscire attivare dinamiche di reciproco ascolto, soprattutto con chi la vede in modo diverso da me. L’ascolto di per sé è una esperienza estetica e politica necessaria a includere il prossimo nel proprio orizzonte di sensibilità.