Nata da circostanze contingenti, l’intervista che segue è più una chiacchierata che una conversazione formale. Il tono e il contenuto si intrecciano con riflessioni personali, mentre il discorso sulla ricerca artistica si snoda tra spontanee digressioni.
L’incontro con Fabrizio Bellomo infatti avviene dopo il mio rientro a Milano dalla Puglia e in seguito alla mia visita alla sua mostra a OPR Gallery, Studio Sulle Architetture Rurali Pugliesi #Parte I: 36 ritratti tutti di costruzioni rurali pugliesi che si stagliano dal biancore delle pareti nella loro fisicità, così come sono.
Minimale e allo stesso tempo allusivo è lo scritto che accompagna la mostra: “Bellomo individua in una specifica zona della Puglia”. Ma quale zona della Puglia? – mi chiedo.
Fin da subito, anche senza molte coordinate esplicite, è chiaro che si tratta di architetture immerse in un contesto specifico e non casuale.
Dalla conversazione che seguirà, emergerà che, con questi ritratti, Bellomo non si limita a documentare edifici rurali, ma tramite questi intende esplorare le complesse relazioni tra spazio, tempo e persone, ovvero raccontare storie.
In foto
Fabrizio Bellomo, "Griglia", 2024, 22 × 33 cm cad. lambda photographic prints mounted on 3mm dibond. Courtesy l'artista e OPR Gallery, Milano.
Desiree Mele: Fabrizio, i tuoi lavori sono frutto di lunghi e continuativi periodi di ricerca e documentazione e, forse per questo, le opere presentate in galleria se considerate per se lasciano degli spazi vuoti. Non nel senso di incompletezza, ma piuttosto nel loro porsi esteticamente in modo così essenziale da indurre chi le osserva a cercare altrove il loro significato. In che modo il carattere “non esplicito” del progetto espositivo da OPR riflette la modalità e l’oggetto della tua ricerca attuale?
Fabrizio Bellomo: …Decine di anni fa, quando iniziai a ospitare amici in Puglia per l’estate (era un’altra Puglia), portai un amico di Firenze nei luoghi che ora sono protagonisti della mia mostra. Gli chiesi di non scattare foto, ma, come prevedibile, lui non mi ascoltò e litigammo anche aspramente. Ero geloso di quei luoghi.
Lo stesso sentimento di preservazione è paradossalmente riaffiorato quando ho deciso di documentare questi stessi posti per la mostra, forse con un’altra consapevolezza. Infatti, c’è la concreta minaccia che questo pezzo di territorio possa essere trasformato in un villaggio turistico diffuso. Da qui il bisogno di documentare lo stato dei luoghi, così come sono ora, creando attraverso le fotografie una memoria storica di un luogo che potrebbe cambiare profondamente.
Nonostante in passato fossi donchisciottescamente geloso della loro divulgazione, oggi credo sia fondamentale produrre una testimonianza storica, in un momento in cui il futuro di questi luoghi è incerto. E forse proprio in questa ambivalenza sta la motivazione per cui ho scelto di non scrivere il nome del luogo: preferisco non indicarlo, anche se non è un posto sconosciuto.
Il sentimento di gelosia verso luoghi è qualcosa di familiare, spesso associato all’istinto e all’autoconservazione. Non so quanto questo sia direttamente legato alla ricerca di Fabrizio, ma sicuramente è un punto di partenza per riflettere sui paesaggi e sulla loro rappresentazione.
Studio sulle Architetture Rurali Pugliesi #Parte 1 è il risultato di una ricerca che Fabrizio Bellomo sta conducendo da anni in Puglia, un’area che è al centro di molti dei suoi progetti. Questo lavoro si inserisce con continuità nella ricerca iniziata con Villaggio Cavatrulli, dove ha esplorato le “architetture residuali”, quei frammenti di territorio derivati dalla continua estrazione della pietra nelle cave di tufo, frammenti che caratterizzano non solo la Puglia, ma anche molte altre aree del Sud Italia.
Villaggio Cavatrulli non è un villaggio reale, ma una creazione immaginaria di Bellomo, nata dalla sua visione e dalla documentazione di altri paesaggi e altri frammenti di territorio, qui sommati tutti e insieme. Racconta anche di un passato, da un lato, legato alla storia degli uomini che hanno cavato e scavato di fatto la pietra della Puglia, e riflette, dall’altro, sulle potenzialità che fanno fatica ad essere riconosciute. Un lavoro più vicino a un’opera letteraria che a una pratica artistica nel senso tradizionale, che riscrive la storia di un territorio dandogli una nuova prospettiva.
d: Rispetto a Villaggio Cavatrulli, in che modo questa nuova ricerca sulle architetture rurali pugliesi ne rappresenta un’evoluzione e, al contempo, in che cosa si differenzia dal progetto precedente?
f: Questi due progetti affrontano il paesaggio pugliese, ma lo analizzano in modi diversi, pur condividendo sovrapposizioni. Nel caso di Villaggio Cavatrulli, un’immagine emblematica mostrava un pajaru salentino ‘intrappolato’ tra due cave di pietra leccese, o meglio, sopra un pilone di pietra non estratta, scartato degli stessi cavatori.
Questo tipo di situazioni poi successivamente è stato favorito da un piano paesaggistico regionale che ha tutelato le architetture rurali. Si è passati quindi da una pratica dettata da una logica di buon senso, quella dei cavatori, ad una che rispondeva ad un obbligo legislativo. Così, le pagghiare, i trulli e i muretti a secco si sono ritrovati a svettare sopra piloni di pietra non cavata, creando anche tante diverse situazioni paradossali, come trulli rimasti isolati nelle rotonde stradali, nei parcheggi o addirittura dentro fabbriche e condomini…
Da un lato, queste architetture vengono promosse come simboli per vendere l’immagine della Puglia, dall’altro, vengono inglobate dalle emergenze legate allo sviluppo edilizio, urbanistico e infrastrutturale.
Infatti la seconda parte del progetto sulle architetture rurali, parte la quale non è in mostra da OPR, nasce proprio dalla riflessione su come queste strutture, una volta simbolo di una tradizione rurale, siano rimaste spesso intrappolate nelle circostanze del contemporaneo diventando dei monumenti involontari, simili alle rovine romane.
Rispetto a Villaggio Cavatrulli, nella griglia esposta da OPR ho voluto concentrarmi su quelle zone e architetture della Puglia più vicine per quanto possibile alla loro storia iniziale, a quelle architetture e a quei paesaggi rurali che sembrano ancora essere rimasti più simili a loro stessi, a come erano originariamente, pur se investiti anch’essi da qualche inevitabile traccia della modernità.
Faccio notare a Fabrizio, un po’ provocatoriamente, che se da un lato i piani legislativi e di marketing omologano le differenze di un territorio, anche i suoi progetti trattano la Puglia come un’unica entità. Prima delle regioni, nel 1970, esistevano le Puglie. Bellomo però sottolinea come la tendenza a ridurre un territorio a una sola immagine sia tipica dello sviluppo economico, come nel caso del famoso logo della Divella, che raffigura un trullo in un campo di grano con sullo sfondo il mare, proprio come quelli che lui fotografa e presenta a OPR Gallery.
Tuttavia, la sua ricerca si distingue da questa semplificazione. Fabrizio è mosso da uno spirito “campanilista” e le sue ricerche hanno come punto di partenza e interesse le identità specifiche di territori e comunità di persone, piuttosto che quelle astratte di nazioni e di masse indefinite.
Torniamo alla mostra. Bellomo utilizza vari media, come video e lungometraggi, ma il suo lavoro sul paesaggio pugliese si distingue per l’uso della fotografia come strumento di documentazione e rappresentazione . In un’epoca di sovrabbondanza di immagini, questa scelta ha un significato particolare: colloca la produzione artistica in contrasto con la produzione di massa di immagini, e innesta una riflessione sul valore della fotografia come mezzo di interpretazione e memoria.
d: Fabrizio, perché hai scelto proprio la fotografia? Qual è il ruolo dell’immagine nel creare nuove rappresentazioni di un paesaggio e di un territorio?
f: I miei lavori, come quelli in mostra da OPR, sono pensati come un display per sollevare domande. Ad esempio, la schematizzazione delle architetture rurali evidenzia la varietà infinita di forme che un’architettura a secco può assumere. Le architetture rurali a secco possono essere lette come una rappresentazione del paesaggio pugliese, con le loro diverse varianti tutte ugualmente affascinanti. In questo senso, il mio lavoro si collega a quello delle Nature Morte, che avevo realizzato in una precedente mostra lo scorso anno sempre da OPR: in fondo, mi interessa la “non-forma”, l’idea che non debba esistere uno standard. La qualità di un’architettura non dipende dalla sua forma, ma dalla sua funzione nel contesto.
Credo che l’obiettivo di un lavoro fotografico come questo sia anche di mettere lo spettatore in condizione di riflettere sulla (non)iconografia di queste architetture. Grazie a questi ritratti, il confronto visivo delle diverse forme potrebbe spingere a interrogarsi sull’iconografia unica che i media ci propongono di queste strutture.
In foto
Fabrizio Bellomo, "Griglia" (dettaglio), 2024, 22 × 33 cm cad., lambda photographic prints mounted on 3mm dibond. Courtesy l'artista e OPR Gallery.
A questo punto, ci soffermiamo su come la produzione e la diffusione dell’immagine di un territorio, come quello pugliese, siano alimentate dalla “macchina del desiderio”. Desideriamo qualcosa da consumare e, una volta soddisfatto il desiderio, abbiamo il bisogno di lasciare una traccia di quanto esperito perpetuando una catena infinita di desiderio, consumo e produzione. Anche le architetture rurali e più in generale alcuni scorci del paesaggio pugliese sono diventati parte di questo meccanismo, trattate come un prodotto di consumo qualsiasi. Eppure, nonostante alcuni tentativi di resistenza, come il recente trend dei social che invita a praticare la “no geolocalizzazione”, sembra che nessuno sfugga davvero da questa macchina desiderante.
d: Per concludere, Fabrizio, il tuo lavoro sul paesaggio mi riporta ad uno dei progetti più corali mai realizzati sul paesaggio italiano, ovvero “Viaggio in Italia”, di cui quest’anno si celebrano i 40 anni dalla sua prima edizione. Un gruppo di fotografi guidati da Luigi Ghirri, stanchi dell’immagine stereotipata da cartolina dell’Italia, danno vita ad un progetto che invitava a deviare dai percorsi turistici tradizionali, proponendo una visione alternativa del Paese. Il tuo lavoro sulla Puglia si inserisce anche in questa visione deviante o oppositiva?
f: In realtà, alcuni dei fotografi di Viaggio in Italia sono anche miei amici, e alcune delle ricerche che ho fatto in Puglia e al Sud si sovrappongono alle loro, come nel caso di Mario Cresci, che ha documentato prima di me alcuni dei luoghi che ho frequentato.
Detto ciò, la mia fotografia è, prima di tutto, una fruizione dei luoghi. Non mi sveglio pensando “devo fare delle foto”. Il mio approccio alla fotografia, in particolare a quella legata all’architettura e al paesaggio, è più spontaneo. Non mi pongo obiettivi o fini culturali predefiniti, ma semplicemente frequento luoghi che mi piacciono o che mi appartengono. Quando questi luoghi diventano significativi per me, nasce il desiderio di documentarli. Nel caso di Villaggio Cavatrulli, per esempio, tutto è partito dalle ex cave a mare sparse sulla costa pugliese, luoghi che frequento d’estate, da decenni, come frequento da decenni per andarci al mare anche il luogo protagonista delle foto presenti nella nostra mostra da OPR.
Non c’è una ricerca premeditata, piuttosto, il mio lavoro è il racconto di ciò che vivo, delle mie giornate. Forse oggi mi ritengo più un cantastorie che un artista. Tendo sempre a ragionare su racconti, appunto anche quello del paesaggio. Raccontando questi mondi, credo di avere in quanto autore il privilegio di raccontarli dal punto di vista delle sconfitte che vengono inflitte, cioè da un punto di vista altro rispetto al racconto del potere. Penso che la buona narrativa sia il racconto della sconfitta e che il racconto della sconfitta sia il contraltare del racconto del potere.
Io come tutti gli autori che raccontano la sconfitta, mi confronto con quello che sarebbe potuto essere e non è stato.
Raccontando questi mondi, credo di avere in quanto autore il privilegio di raccontarli dal punto di vista delle sconfitte che vengono inflitte, cioè da un punto di vista altro rispetto al racconto del potere....
Io come tutti gli autori che raccontano la sconfitta, mi confronto con quello che sarebbe potuto essere e non è stato.
In foto
Il lavoro di Fabrizio Bellomo sul paesaggio pugliese, però, più che un semplice racconto di un ipotetico impossibile, dopo un’ora di conversazione appare come un romanzo del futuro anteriore: una narrazione che intreccia la storia della Puglia, passata e presente, con un’idea di futuro che si costruisce proprio nella relazione tra ciò che è e ciò che potrebbe essere.
Una tensione che nasce dalla volontà di immaginare e contro-raccontare altri destini di un territorio. Come un cantastorie, Bellomo ci invita a riflettere su una Puglia che è tanto una metafora di ciò che è stato perduto quanto un’opportunità di re-immaginazione. In questo senso, Bellomo non solo racconta un paesaggio, ma ne suggerisce le sue possibilità: il suo lavoro va oltre la semplice documentazione ma è una presa di posizione a favore di una narrazione più sfumata, che trova valore nelle “sconfitte” e nelle potenzialità non espresse.